Ho sentito l’amaro dell’odio, guardando dritto negli occhi ghiaccio di Igor. Mi ha investita quel sapore, prima degli insulti che mi stava urlando appresso, metà in russo metà in italiano. Una saetta iniettata di sangue ha reso chiodi le trasparenze con cui lo avevo conosciuto.
Non avevo previsto il doppio senso della mia imprecazione, non avevo pesato il movimento con cui il mio corpo aveva accompagnato il moto di ribellione allo stillicidio durato minuti fino a diventare giorni.
Non avevo pensato. Mi aveva preso alla sprovvista la monotonia, la ripetizione incessante e prevedibile di identici errori. Ed ero esplosa. Malamente.
Nella mia testa due me che si sfidavano, chi avrebbe avuto la meglio? In quell’attimo sospeso in cui i chiodi mi stavano attaccando alle pareti finemente decorate, tra un finto Tiziano e un Carracci e sotto la luce grigia di un candeliere veneziano rimasto incolume, mi sembrò che entrambe fossero scivolate a terra. Quello che rimaneva là, appuntato, era un contenitore svuotato e paralizzato.
Lui, Igor, non aveva un duello dentro di sé: lui, il nemico, l’aveva incontrato realmente, in una guerra lontana dai riflettori, nelle peggiori condizioni e contro un avversario reale. Era il superstite di se stesso, il suo demone l’aveva lasciato in profonde impronte nella neve di una immensa regione straniera. Io, però, questo non lo sapevo ancora. Io sapevo quello che vedevo, come sempre, e non avevo capito bene.
Sono lenta.
Non avevo capito.
E non sapevo.
Tre mancanze gravi, secondo tutti i manuali in circolazione.
L’andamento pelle e ossa, leggermente curvo, i capelli a spazzola e quei due fari spalancati, infossati in occhiaie profonde, li avevo incontrati la prima volta insieme ai suoi baffi, girando l’angolo della Galleria Nord-Est. Camminavo rapida e attenta, mentre mi spiegavano in un’altra lingua i miei compiti per le settimane a venire. Accennai un sorriso, mentre salutavo. L’educazione e la cortesia, due paradigmi inculcati fin da quando sei bambina “fai la brava e saluta il signore”.
I guanti di protezione, quelli gialli, facevano un effetto comico sulla sua figura, mostrando delle mani fuori scala che potevano essere mostruose o da cartoon. Preferisco sempre lo sguardo ironico, ma per difesa.
Portava dei pannelli multistrato pretrattati effetto corten per l’allestimento. Orribili, enormi. Mi chiedevo come li avrebbero montati in quegli ambienti vincolati e posti sotto tutela da accordi internazionali e telecamere. Girato l’angolo, trovai la risposta alle mie domande. Erano organizzati in gruppi di quattro o cinque, la prospettiva del lungo braccio di galleria mi consentiva di vederne almeno tre squadre all’opera. Per un attimo, incontrando i loro sguardi voltarsi verso di me, i miei occhi hanno letto una scena di Deineka, ho faticato a spazzare via il paesaggio industriale scuro e al biancore della neve, lasciando emergere solo i volti e le figure appesantite dallo sforzo. Il capomastro mostrava degli occhi acquosi, abbinati ad un accento caldo e complice da circostanza. La stessa voce, due secondi prima di rivolgersi a me, gli aveva gonfiato le vene del collo, ancora rosso, all’indirizzo di un paio della squadra che avevano urtato il cristallo dei lampadari montando il trabattello. I suoi occhi, però, non erano trasparenti. Erano due paludi grigie in cui decisi da subito di non avventurarmi. Ci stringemmo la mano, forse fu l’unico contatto che avemmo per dichiararci istantaneamente reciproca indifferenza.
Non avevo previsto il doppio senso della mia imprecazione, non avevo pesato il movimento con cui il mio corpo aveva accompagnato il moto di ribellione allo stillicidio durato minuti fino a diventare giorni.
Non avevo pensato. Mi aveva preso alla sprovvista la monotonia, la ripetizione incessante e prevedibile di identici errori. Ed ero esplosa. Malamente.
Nella mia testa due me che si sfidavano, chi avrebbe avuto la meglio? In quell’attimo sospeso in cui i chiodi mi stavano attaccando alle pareti finemente decorate, tra un finto Tiziano e un Carracci e sotto la luce grigia di un candeliere veneziano rimasto incolume, mi sembrò che entrambe fossero scivolate a terra. Quello che rimaneva là, appuntato, era un contenitore svuotato e paralizzato.
Lui, Igor, non aveva un duello dentro di sé: lui, il nemico, l’aveva incontrato realmente, in una guerra lontana dai riflettori, nelle peggiori condizioni e contro un avversario reale. Era il superstite di se stesso, il suo demone l’aveva lasciato in profonde impronte nella neve di una immensa regione straniera. Io, però, questo non lo sapevo ancora. Io sapevo quello che vedevo, come sempre, e non avevo capito bene.
Sono lenta.
Non avevo capito.
E non sapevo.
Tre mancanze gravi, secondo tutti i manuali in circolazione.
L’andamento pelle e ossa, leggermente curvo, i capelli a spazzola e quei due fari spalancati, infossati in occhiaie profonde, li avevo incontrati la prima volta insieme ai suoi baffi, girando l’angolo della Galleria Nord-Est. Camminavo rapida e attenta, mentre mi spiegavano in un’altra lingua i miei compiti per le settimane a venire. Accennai un sorriso, mentre salutavo. L’educazione e la cortesia, due paradigmi inculcati fin da quando sei bambina “fai la brava e saluta il signore”.
I guanti di protezione, quelli gialli, facevano un effetto comico sulla sua figura, mostrando delle mani fuori scala che potevano essere mostruose o da cartoon. Preferisco sempre lo sguardo ironico, ma per difesa.
Portava dei pannelli multistrato pretrattati effetto corten per l’allestimento. Orribili, enormi. Mi chiedevo come li avrebbero montati in quegli ambienti vincolati e posti sotto tutela da accordi internazionali e telecamere. Girato l’angolo, trovai la risposta alle mie domande. Erano organizzati in gruppi di quattro o cinque, la prospettiva del lungo braccio di galleria mi consentiva di vederne almeno tre squadre all’opera. Per un attimo, incontrando i loro sguardi voltarsi verso di me, i miei occhi hanno letto una scena di Deineka, ho faticato a spazzare via il paesaggio industriale scuro e al biancore della neve, lasciando emergere solo i volti e le figure appesantite dallo sforzo. Il capomastro mostrava degli occhi acquosi, abbinati ad un accento caldo e complice da circostanza. La stessa voce, due secondi prima di rivolgersi a me, gli aveva gonfiato le vene del collo, ancora rosso, all’indirizzo di un paio della squadra che avevano urtato il cristallo dei lampadari montando il trabattello. I suoi occhi, però, non erano trasparenti. Erano due paludi grigie in cui decisi da subito di non avventurarmi. Ci stringemmo la mano, forse fu l’unico contatto che avemmo per dichiararci istantaneamente reciproca indifferenza.
Igor, lo incrociavo la mattina nel cortile, accanto alla pila di materiale che a seconda della giornata diventava da costruzione o da riciclo. Spesso i nostri incontri erano un semplice buongiorno. Per lui era l’ennesimo, arrivando molto prima di me. Avevo appena smesso di fumare, per la seconda volta, e il suo buongiorno spigoloso mi arrivava dritto nelle narici, un fumetto tabacco e caffè, solleticando quella vocina dentro che mi ricordava di avere tutto il diritto di riprendere il vizio, visto lo stress che sentivo addosso già a quell’ora. Poi alzavo lo sguardo verso la geometrica perfezione del cortile, facevo un bel respiro e infilavo la vetrata di accesso allo scalone.
Il teatro era un palazzo seicentesco illustrissimo, studiato sui libri, visitato all’esterno, mai penetrato. Ho scoperto che una forma di sottomissione alle regole, confusa con il rispetto per le istituzioni, mi ha tenuta per anni lontana dalla realtà. Quante serate estive in giro per il centro, finivano a sedersi sui freschi sedili del basamento del dado, ad ascoltare la musica delle due fontane, a godersi il brusio e la penombra della piazza. Insormontabile, mi sembrava, il palazzo. Impenetrabile, nel suo aspetto rigoroso e nella sua funzione di frontiera.
La prima volta che ho suonato il citofono e che la telecamera ha indugiato a lungo sulla mia fisionomia, ero emozionata. Tremavo, quasi. Una voce lontanissima, con accento marcato, mi chiese i titoli per l’accesso. Bastò una sola parola, mi sembrò di tornare bambina, una parola magica azionò l’apertura automatizzata della porzione di portone ed entrai. La volta a botte illuminata con i cassettoni marmorei a bassorilievi floreali fu la prima cosa, le due file di colonne che la sorreggevano, la seconda; la fuga su cortile che finiva negli alberi del giardino, la terza.
Ogni mattina, entravo con lo stesso candore di cappuccetto rosso, lasciandomi prendere da un nuovo dettaglio da studiare, da imparare. Era bello avere, seppur a scadenza, una consuetudine con quel monumento, una sorta di addomesticamento. Mi sembrava di andare a trovare la nonna, regolarmente e disciplinatamente, ascoltarne le storie, coglierne un luccicare dei suoi occhi, percepire la voce rotta o vederne le mani tremanti. E che importava se sotto le sembianze, si nascondeva un animale astuto e feroce.
Ero seguita passo passo da un occhio silenzioso e da orecchie sparse ovunque. Lo sentivo, ma soprattutto lo sapevo.
La seconda volta che scambiai due parole con Igor, si trovava nella saletta proiezioni. Stava svitando i sedili senza l’avvitatore elettrico. La sua squadra aveva a disposizione due cacciaviti e una chiave inglese. Lui e un altro lavoravano. Gli altri tre dormivano sul palco. Il mio sguardo stupefatto lo fece ridere; le sagome di schiena dei suoi compagni raggomitolati sui cartoni si sovrapponevano al centinaio di sedili da smontare, uno ad uno, otto perni per ciascuno.
Mi veniva da piangere e non sapevo se fosse per l’ordine impartitomi di verificare che il lavoro venisse svolto nei tempi stabiliti oppure per le condizioni in cui si lavorava. Non sapevo se la pena che provavo nel vedere scene come questa, fosse lecita. Mi chiedevo realmente da che parte stessi e su quale fronte dovessi operare. Ero incazzata, ma non lo sapevo. Una volta ancora ero lenta.
Ero io la terra di nessuno. Appartenevo ad un clichè mio malgrado.
Il teatro era un palazzo seicentesco illustrissimo, studiato sui libri, visitato all’esterno, mai penetrato. Ho scoperto che una forma di sottomissione alle regole, confusa con il rispetto per le istituzioni, mi ha tenuta per anni lontana dalla realtà. Quante serate estive in giro per il centro, finivano a sedersi sui freschi sedili del basamento del dado, ad ascoltare la musica delle due fontane, a godersi il brusio e la penombra della piazza. Insormontabile, mi sembrava, il palazzo. Impenetrabile, nel suo aspetto rigoroso e nella sua funzione di frontiera.
La prima volta che ho suonato il citofono e che la telecamera ha indugiato a lungo sulla mia fisionomia, ero emozionata. Tremavo, quasi. Una voce lontanissima, con accento marcato, mi chiese i titoli per l’accesso. Bastò una sola parola, mi sembrò di tornare bambina, una parola magica azionò l’apertura automatizzata della porzione di portone ed entrai. La volta a botte illuminata con i cassettoni marmorei a bassorilievi floreali fu la prima cosa, le due file di colonne che la sorreggevano, la seconda; la fuga su cortile che finiva negli alberi del giardino, la terza.
Ogni mattina, entravo con lo stesso candore di cappuccetto rosso, lasciandomi prendere da un nuovo dettaglio da studiare, da imparare. Era bello avere, seppur a scadenza, una consuetudine con quel monumento, una sorta di addomesticamento. Mi sembrava di andare a trovare la nonna, regolarmente e disciplinatamente, ascoltarne le storie, coglierne un luccicare dei suoi occhi, percepire la voce rotta o vederne le mani tremanti. E che importava se sotto le sembianze, si nascondeva un animale astuto e feroce.
Ero seguita passo passo da un occhio silenzioso e da orecchie sparse ovunque. Lo sentivo, ma soprattutto lo sapevo.
La seconda volta che scambiai due parole con Igor, si trovava nella saletta proiezioni. Stava svitando i sedili senza l’avvitatore elettrico. La sua squadra aveva a disposizione due cacciaviti e una chiave inglese. Lui e un altro lavoravano. Gli altri tre dormivano sul palco. Il mio sguardo stupefatto lo fece ridere; le sagome di schiena dei suoi compagni raggomitolati sui cartoni si sovrapponevano al centinaio di sedili da smontare, uno ad uno, otto perni per ciascuno.
Mi veniva da piangere e non sapevo se fosse per l’ordine impartitomi di verificare che il lavoro venisse svolto nei tempi stabiliti oppure per le condizioni in cui si lavorava. Non sapevo se la pena che provavo nel vedere scene come questa, fosse lecita. Mi chiedevo realmente da che parte stessi e su quale fronte dovessi operare. Ero incazzata, ma non lo sapevo. Una volta ancora ero lenta.
Ero io la terra di nessuno. Appartenevo ad un clichè mio malgrado.
Aleksandr Deineka La difesa di Pietrogrado 1928 |
Nessun commento:
Posta un commento