brevi racconti che, come pezzi di vetro, filtrano la realtà come capita di vederla attraverso trasparenze sovrapposte.

sabato 31 marzo 2012

Vocabolario intimo


Le parole sono come la pellicola superficiale su un'acqua profonda.
Ludwig Wittgenstein (1889-1951)


Irene ha cominciato a perdere le parole, qualche tempo fa. Inciampava in un buco, un ostacolo, se ne accorgeva. Tornava indietro e guardava quel vuoto. Prima, non lo aveva neanche percepito e si rendeva conto della voragine esistente solo adesso, senza QUELLA parola. Non riusciva più a distogliere lo sguardo, mentre il percorso era interrotto, il tempo scorreva e lei si sentiva impotente. Cercava un sinonimo da piazzare lì a tappare quel buco, invece niente. Anche il sinonimo faceva sciopero e lei si doveva per forza sedere a terra e fermarsi davvero.
Di solito, ci aveva fatto caso, si trattava di una parola che descriveva esattamente una percezione che aveva intuito, rispetto ad una situazione, ad una persona, ad un ricordo. Quando però si trattava si dirla, ecco che la parola precisa non c'era più: da quello scaffale in cui era disposto il suo pensiero, mancava solo una parola, QUELLA parola, che rompeva la frase in due, un prima e un dopo senza l'anello che li congiungeva. E così prese a scrivere frasi con uno spazio bianco, riempì un diario di parole mancanti, che ogni tanto, all'improvviso, tirava di corsa fuori dalla borsa in preda ad un brivido febbrile..cercava la pagina, mica era facile, eccola eccola, dai, trovata! ..e zac, una parola rossa veniva aggiunta.
Era una strana sensazione, mentre pensava a tutt'altro, faceva tutt'altro, quella che provava Irene alla comparsa improvvisa e netta di QUELLA parola.
Come trovare una soluzione ad un rebus molto intimo. Era convinta che leggendole tutte in fila, disposte secondo un ordine che avrebbe potuto trovare solo lei, QUELLE parole avrebbero disegnato la sua geografia.
E leggerla lì, adesso, QUELLA parola, la faceva sentire presente, viva. La pronunciava e sentiva la sua lingua battere sui suoi denti, le sue labbra sfiorarsi, il respiro e le corde vocali dare una forma fisica ad un concetto che le era sfuggito per troppo tempo.
Un tassello era tornato sul percorso e lei poteva procedere nel suo cammino.


domenica 18 marzo 2012

La musica di oggi




“So, rumble young musicians, rumble. Open your ears and open your hearts. Don’t take yourselves too seriously and take yourselves as seriously as death itself. Don’t worry. Worry your ass off. Have confidence but doubt, it keeps you awake and alert” 

Bruce Springsteen 
South by SouthWest 
Austin 2012













sabato 17 marzo 2012

Prunus persica vulgaris


Ieri, al parco, il mio sguardo è stato catturato da un ramo di pesco, tra le dita di una ragazza. Ho seguito il suo percorso, da sinistra a destra e poi lontano, in una sorta di rapimento primaverile.
In Egitto la foglia di pesco simboleggia il silenzio, mentre in Giappone il pesco è venerato come protettore contro le forze malefiche e la sua fioritura è metafora di rinnovamento, rinascita e purezza.

Oggi lasagne.



sabato 10 marzo 2012

Da Modica a me


Caro Mario,
sono arrivata a Modica. Il viaggio è stato meno faticoso del previsto, la nave per Catania comoda, il pullman che mi ha portata qui puntuale. Ho condiviso il viaggio con persone che hanno arricchito la traversata di storie, scambi, sorrisi. L’accoglienza della Sicilia non ha tardato a mostrarsi, discreta e franca. E non mi ha colta impreparata: ho ritrovato un sapore lontano, a me noto.
Eppure la luce era accecante, all’arrivo, e la città mi schiacciava col suo deserto, dal lastrico delle vie ai volumi delle case arrampicate sulle colline. Solo gli alberi verde scuro dei viali mi invitavano ad accomodarmi, unici padroni di casa possibili, a quell’ora. Sotto le loro chiome potevo persino azzardarmi a indugiare con lo sguardo intorno.
Sono vari giorni che giro, esploro un nuovo modo di entrare in contatto con una realtà che sto visitando per la prima volta, che poi è il tema del mio viaggio.
La realtà, come l’ho chiamata, ha una conformazione particolare e il tessuto urbano sembra aver semplicemente aderito alla morfologia del terreno, ricalcandone i connotati. Prima di partire e poi lungo il viaggio, ho letto qualche notizia carpita alla rete. Ovviamente, lo immaginerai, ero molto curiosa di incontrare il barocco siciliano: quante volte ci avevo viaggiato con la fantasia, ai tempi degli studi. Ricordi le centinaia di fotocopie delle facciate di chiese e palazzi da mandare a memoria per l’esame di Simoncini? Passavamo pomeriggi estivi al tavolo cercando di inventare una cantilena per fermare i caratteri, gli stili e le differenze.
Qualche sera fa abbiamo visitato il quartiere della cartellonaria e lì, alla luce gialla dei lampioni che punteggiavano il paesaggio al negativo, ho avuto una impressione diversa. Sarà stato il luogo o il suggestivo racconto che mescolava diverse chiavi di lettura, la storia, la poesia, il dialetto e gli aneddoti, scorci difficili da catturare con l’obiettivo, non so. Mi è sembrato di andare sottopelle alla città, non guardarla da fuori, ma da dentro. Dentro quelle grotte  di calcare addomesticate in stalle, ricoveri, case, tombe che in alto si leggevano con facilità, mentre  si diradavano poi nascoste tra le case.
Mi aveva colpito, leggendo un po’ di storia sull’insediamento urbano, il fatto che i due corsi principali ricalcassero, coprendolo, il letto dei due fiumi che segnano il paesaggio, dividendolo in quattro colli. Dal punto in cui sono alloggiata, risalgo la corrente ogni mattina verso il centro e così, riflettendo fra me e me cercavo una chiave di lettura idrica, sovrapponendo alla ragnatela di scalette e vicoli tortuosi una immagine di piccoli torrenti che raggiungevano il fiume scendendo, un po’ come, infatti, si era svolta quella passeggiata serale.
Il suggerimento della guida, poi,  di raggiungere non dal basso, ma dall’alto, punti nevralgici della città posizionati a mezza costa ,“fatevi portare sulla strada di sopra e poi scendete”, diceva Ernesto, mi ha fatto pensare che i modicani hanno metabolizzato, rubandolo, il corso naturale dell’acqua.
Ma un’altra cosa mi ha colpito assai. Visitando un versante della città, sei continuamente affacciato sul quartiere opposto, come fossi al balcone e guardassi il palazzo di fronte. Ora lo so, mi dirai che sono proprio una turista cittadina che non si scosta dal proprio sguardo abituale e ti darei ragione, ma il fatto è che quando viaggio porto anche quella parte di me che usa quotidianamente  un linguaggio automatico in cui il paesaggio fa da sfondo . Qui mi devo adattare ad una nuova andatura, qui tutto passa in primo piano, anche se ti confesso che spesso penso che in quello che vedo c’è molto di me.
Modica in alcuni punti mi ha evocato il gesto di due mani raccolte per bere sotto al getto di una fontana: due mani aperte verso il cielo simmetricamente a formare una conca, a raccogliere. E così, seguendo il filo dei miei pensieri e delle mie continue divagazioni, ho cominciato a risalire la città, cercando il momento, la luce adatta  per poter catturare scorci e dettagli al massimo della loro espressione. In fondo ho trasgredito al consiglio, volevo seguire la mia angolatura per capire la loro, sfidando la mia forma fisica poco allenata (non sai che pendenze, qui..e immagina col caldo, poi). Ho rimpianto tutti gli inviti mancati agli allenamenti al parco e persino gli attrezzi in palestra.
Mi spiace andare via da Modica, Mario. Ho colto un legame tra la natura del luogo e quella dei suoi abitanti. Hanno grande disponibilità al dialogo, spesso la gentilezza con cui sono pronti a fermarsi per darti una risposta diventa desiderio di lasciarti una storia, ma con l’elegante discrezione tipica del siciliano. Un po’ come quelle tende che si poggiano alle leggere balaustre dei palazzi signorili: indicano che gli scuri sono aperti e ondeggiando proteggono il carattere intimo di chi vi abita.
Ti abbraccio forte
Claudia
P.S. Il barocco poi l’ho trovato. E sembra proprio come l’avevamo studiato: le immagini delle chiese che dovevamo mandare a memoria,  spuntano dal paesaggio urbano omogeneo e le puoi contare con il dito, specialmente la sera.



giovedì 8 marzo 2012

Non è giusto 2


Pubblicato da amici su social network. Importante non dimenticare.

Poco tempo fa.

Non è giusto


Le sue lacrime improvvise quanto irrefrenabili sono uscite con "non è giusto che le donne abbiano una festa, mentre gli uomini solo quella del papà!"
Mano nella mano, sul viale della scuola, anche se un po' in ritardo, ho rallentato il passo e sfoderato un sorriso, mentre mi abbassavo e asciugavo le sue lacrime guardandolo. Gli ho chiesto se voleva che gli spiegassi il perchè di questa "ingiustizia". Mi ha fatto sì con la testa, imbronciato con quegli occhioni grandi ancora lucidi e così, ho raccontato a mio figlio perchè oggi si festeggia la donna. 
Perchè la strada, come il viale che stavamo percorrendo, è in salita e ancora oggi le donne faticano a rivendicare la propria libertà e la propria indipendenza. "che vuol dire indipendenza?". 
Sono 90 anni che l'Italia festeggia l'8 marzo, ma avevo due anni quando si tenne la Festa a Campo de' Fiori e ne avevo sette, come lui, quando è stata proclamata Giornata delle Nazioni Unite per i diritti della donna e la pace internazionale.
"vuol dire che una donna oggi può vivere senza dover dipendere da un uomo, mentre un tempo non si poteva, perchè le donne non avevano la possibilità di scegliere neanche cosa volevano fare. Vuol dire che da pochi anni vengono riconosciuti gli stessi diritti  per voi uomini e per noi donne, come studiare, avere un lavoro, viaggiare, la libertà di esprimere le proprie idee, di fare delle cose che prima non potevamo proprio neanche chiedere. Purtroppo questo non è possibile ancora dappertutto. E spesso non viene accettato da alcuni. Per questo le donne e gli uomini, questo è importante, oggi festeggiano la donna. Così si diffonde il più possibile questa conquista. Che ne pensi tu, ti sembra ancora una cosa ingiusta?"
Non c'era neanche bisogno che mi rispondesse con il suo "NO", perchè aveva ascoltato in silenzio la risposta alle sue domande e non piangeva più.
Eravamo arrivati. E sulla discesa, i miei pensieri correvano più veloci dei miei piedi misurando la strada che avevo fatto e quanta ancora mancava.

martedì 6 marzo 2012

Nino sulla metro

Assorta nei suoi pensieri, attraversò le porte del vagone come se stesse saltando via in cerca di salvezza. Da cosa, poi, non lo sapeva neanche lei. Si introdusse velocemente, in ogni caso, e si mescolò con l’umanità che affollava la metro a quell’ora, respirandone con sollievo la muta indifferenza. Un’ombra riflessa nei finestrini sporchi, una giacca rossa che sapeva di vento e salsedine spiccava tra i colori spenti e anonimi generali. Lo sguardo intercettò con un certo timore i propri occhi, aveva appena smesso di piangere e salendo ancora, quei capelli, non aveva avuto il tempo di sistemarli e non li voleva vedere. La folla di piedi riempì lo spazio visivo in un attimo.
Lui salì alla fermata successiva e si preparò con molta cura, attento a non farsi notare. Infatti, lei non lo vide, tutta presa com’era dall’analisi tipologica di piedi e scarpe a campione attorno alle sue: ballerine, mocassini, sandali alla schiava, tacco dodici, sneakers, stivali da cavallerizza, francescane, stringate inglesi, tante gemme e metalli luccicanti, camperos accanto a decolletè, scarpe consumate e impolverate, piedi curati con unghie laccate a colori sgargianti, piedi stanchi infagottati in improbabili calzettoni spugna, declinazioni fantasiose di espadrillas. Guardando solo le scarpe, azzardava ipotesi su chi le abitasse.
Dalla custodia sulle spalle lui estrasse la sua chitarra, il plettro, un respiro e poi attaccò.
Sole sul tetto dei palazzi in costruzione, sole che batte sul campo di pallone e terra e polvere che tira vento e poi magari piove.
L’accordo e le parole le trafissero i muscoli dell’addome prima che lei se ne rendesse conto, le
mancò per un attimo il pavimento del treno sotto i piedi e pensò alla velocità, ipotizzò di non star bene. In un respiro alzò lo sguardo e si ritrovò sulla pista bianca al tramonto invernale, con le gambe nude pronte per attaccare la curva in corsa sulle ruote. Il cuore a mille, il respiro usciva a nuvolette ritmiche di vapore caldo e rientrava in aghi pungenti nelle narici. Era solo lei, si ascoltava nel ritmo del respiro, del battito e della velocità che scorreva sotto ai suoi piedi come un carrello industriale su binari di pietra.
Nino cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma dura, dodici anni e il cuore pieno di paura.
Le sembrò come se uno, tra la folla, all’improvviso l’avesse chiamata per nome. Si voltò,lo cercò con lo sguardo e non dovette faticare molto, era a due passi da lei. Lui non guardava nessuno.
Suonava e cantava. Da Dio. E lei riprese a correre sui pattini in cerca del momento giusto per farlo.
Adesso, sulla pista erano loro due. L’aveva sentito prima di vederlo, si era girata per essere certa che lui fosse lì davvero. E lui c’era, anche se era al bordo e con lo sguardo acceso solo sulle proprie dita.
Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia.
Lo sentì forte dentro, Nino, che quasi perse i sensi. Una riga si formò lungo la guancia, mentre senza accorgersene cantava, sottovoce. Eccola, un’altra riga di poco discosta e un sorriso appena accennato che si apriva sempre più, bello. Usciva. Finalmente usciva Nino, finalmente l’aveva ritrovato. Le lacrime erano tagli freddi che il vento accendeva, sentiva le gocce staccarsi perfettamente dalla curva delle guance per partire in raggi diagonali e colpire quello che incontravano nella traiettoria, spalle, collo, petto, pista. La corsa, sincopata, regolare e crescente
nella potenza la riempiva di cuore e di vita. Le veniva di cantare a squarciagola per invitare il flusso bianco a raggiungerla. Cantavano all’unisono senza conoscersi, le parole venivano da sole, gli occhi attaccati a lui, sguardobasso & vocedadio, che restava lì a bordo pista a regalarle quello spettacolo e a chiamarla come un incantatore di serpenti. Al terzo giro, passandogli accanto in corsa finalmente si decise a giocare e lo provocò per vedere se lui era lì con lei.
Superandolo, si voltò e per guardare meglio la reazione prese l’andatura di spalle, fu un leggero sfasamento tra accordi e voce, il suo, accompagnato da un rapido cambio di posizione, ma lo sguardo non lo alzò, imperterrito. Lei, con la sua andatura sciolta all’indietro, sorrise e col suo sguardo veloce riprese la corsa verso il punto giusto.
E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori che non hanno vinto mai ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro e adesso ridono dentro a un bar, e sono innamorati da dieci anni con una donna che non hanno amato mai. Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai.
Le parole le entrarono dentro e trovarono uno spazio per fluire insieme ai suoi pensieri. Si presero per mano e danzarono con ricordi, immagini e sospiri. In un lampo di lucidità, ecco la zip che chiude i pattini nel borsone di pelle, lei che lo infila nello stanzino buio, sotto cappotti, tra scatoloni. Eccola la donna di cui sei innamorata e che non hai amato mai, pensò. Eccola qui, Nino.
Apri quello stanzino, ADESSO!
Nino capì fin dal primo momento, l'allenatore sembrava contento e allora mise il cuore dentro alle scarpe e corse più veloce del vento. Prese un pallone che sembrava stregato, accanto al piede rimaneva incollato, entrò nell'area, tirò senza guardare ed il portiere lo fece passare.
Aveva cantato, possibile? Lo aveva fatto, senza remore. Senza vergogna. A voce alta. La potenza della strofa era contagiosa, il crescendo e la rincorsa di note e calcio era trascinante. Lo sforzo, nel momento del puntare e staccare, aveva trasformato da potenza cinetica in forza centrifuga la sua gamba che aveva guidato, perfettamente allineata, l’apertura e la rotazione del suo corpo per due
volte nell’aria. Richiudendosi in volo e poi riaprendosi nell’atterraggio di spalle, la gamba, ortogonale all’altra, perfettamente tesa controvento, fendeva l’aria come una polena, indicando la direzione. L’arco della schiena raggiungeva l’apice della sua grazia con un sensuale gesto femminile, completato dal volteggio delle braccia. Un lungo brivido saliva dalla punta delle dita lungo la spalla, raggiungendole la nuca. Se tu fossi stato lì, presente in quell’assolo, avresti visto il sorriso più bello del mondo. Ma lì c’era solo sguardobasso & vocedadio e lei chiuse il numero in
corsa, come se non si fosse mai interrotta, come avesse semplicemente fatto un ghirigoro gioioso nella luce. Adesso erano stati i suoi di occhi ad essere rivolti dentro, a non guardare altro che se stessa e la bellezza della sua figura come fosse un’ombra fluida creata per quell’unico gesto.
….Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette, questo altro anno giocherà con la maglia numero sette.
Guardò con attenzione quello che sembrava un sacchetto per le offerte, appeso lì alla chitarra..mentre gli accordi accompagnavano il giro inquieto dei suoi dubbi. Possibile che il palco fosse un vagone e il compenso una elemosina? Il pubblico era tutto rivolto a lui, non più indifferente, né trasparente o omogeneamente grigio, attonito per la grazia di un’esecuzione da teatro.
Un applauso ruppe il silenzio, ognuno con lo sguardo a cercare gli occhi degli altri per sentirsi reali, coinvolti, per scambiare l’emozione di aver preso parte allo spettacolo. Un vagone intero e compatto, non più una accozzaglia di scarpe consumate. Lei prese delle monete e lasciandole scivolare lo guardò dicendogli “sei bravo. mi hai emozionato”, lui la guardò velocemente e ringraziò in maniera discreta mentre ritirava il contributo offerto dal suo pubblico.
Lei rimase di sasso, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Quante fermate erano passate?
Aveva perso cognizione di sé col tempo, mentre era totalmente rapita da lui. Un angelo? Ringraziò la vita per sorprenderla nei momenti più impensati. E lui attaccò “isn’t she lovely?” con voce lieve, timida quasi. Non la guardò, non alzò lo sguardo mai. Al termine del bis, rimise la chitarra nella custodia ed infilò la porta, anonimo fra la folla, con calma, quasi a rendersi invisibile. Lei non lo mollò, le venne quasi un istinto di scendere e rincorrerlo. Si sentì una stupida. Una stupida a non raggiungerlo, ma pensò che era bello così.
Scese da quel treno che non fuggiva più. Il passo ora era deciso leggero, calmo e pieno di armonia.
Un sorriso illuminò quel volto rigato e un po’ sfatto e chi la incontrò sulla scala mobile non poté fare a meno di girarsi a riguardarla.

dedicato a sguardobasso & vocedadio, francè e cyborg che mi hanno fatto ricordare che Nino è ancora sulla metro. 

pensando a R.

sabato 3 marzo 2012

Galleria Nord Est



Ho sentito l’amaro dell’odio, guardando dritto negli occhi ghiaccio di Igor. Mi ha investita quel sapore, prima degli insulti che mi stava urlando appresso, metà in russo metà in italiano. Una saetta iniettata di sangue ha reso chiodi le trasparenze con cui lo avevo conosciuto.

Non avevo previsto il doppio senso della mia imprecazione, non avevo pesato il movimento con cui il mio corpo aveva accompagnato il moto di ribellione allo stillicidio durato minuti fino a diventare giorni.
Non avevo pensato. Mi aveva preso alla sprovvista la monotonia, la ripetizione incessante e prevedibile di identici errori. Ed ero esplosa. Malamente.
Nella mia testa due me che si sfidavano, chi avrebbe avuto la meglio? In quell’attimo sospeso in cui i chiodi mi stavano attaccando alle pareti finemente decorate, tra un finto Tiziano e un Carracci e sotto la luce grigia di un candeliere veneziano rimasto incolume, mi sembrò che entrambe fossero scivolate a terra. Quello che rimaneva là, appuntato, era un contenitore svuotato e paralizzato.
Lui, Igor, non aveva un duello dentro di sé: lui, il nemico, l’aveva incontrato realmente, in una guerra lontana dai riflettori, nelle peggiori condizioni e contro un avversario reale. Era il superstite di se stesso, il suo demone l’aveva lasciato in profonde impronte nella neve di una immensa regione straniera. Io, però, questo non lo sapevo ancora. Io sapevo quello che vedevo, come sempre, e non avevo capito bene.
Sono lenta.
Non avevo capito.
E non sapevo.
Tre mancanze gravi, secondo tutti i manuali in circolazione.

L’andamento pelle e ossa, leggermente curvo, i capelli a spazzola e quei due fari spalancati, infossati in occhiaie profonde, li avevo incontrati la prima volta insieme ai suoi baffi, girando l’angolo della Galleria Nord-Est. Camminavo rapida e attenta, mentre mi spiegavano in un’altra lingua i miei compiti per le settimane a venire. Accennai un sorriso, mentre salutavo. L’educazione e la cortesia, due paradigmi inculcati fin da quando sei bambina “fai la brava e saluta il signore”.
I guanti di protezione, quelli gialli, facevano un effetto comico sulla sua figura, mostrando delle mani fuori scala che potevano essere mostruose o da cartoon. Preferisco sempre lo sguardo ironico, ma per difesa.
Portava dei pannelli multistrato pretrattati effetto corten per l’allestimento. Orribili, enormi. Mi chiedevo come li avrebbero montati in quegli ambienti vincolati e posti sotto tutela da accordi internazionali e telecamere. Girato l’angolo, trovai la risposta alle mie domande. Erano organizzati in gruppi di quattro o cinque, la prospettiva del lungo braccio di galleria mi consentiva di vederne almeno tre squadre all’opera. Per un attimo, incontrando i loro sguardi voltarsi verso di me, i miei occhi hanno letto una scena di Deineka, ho faticato a spazzare via il paesaggio industriale scuro e al biancore della neve, lasciando emergere solo i volti e le figure appesantite dallo sforzo. Il capomastro mostrava degli occhi acquosi, abbinati ad un accento caldo e complice da circostanza. La stessa voce, due secondi prima di rivolgersi a me, gli aveva gonfiato le vene del collo, ancora rosso, all’indirizzo di un paio della squadra che avevano urtato il cristallo dei lampadari montando il trabattello. I suoi occhi, però, non erano trasparenti. Erano due paludi grigie in cui decisi da subito di non avventurarmi. Ci stringemmo la mano, forse fu l’unico contatto che avemmo per dichiararci istantaneamente reciproca indifferenza.
Igor, lo incrociavo la mattina nel cortile, accanto alla pila di materiale che a seconda della giornata diventava da costruzione o da riciclo. Spesso i nostri incontri erano un semplice buongiorno. Per lui era l’ennesimo, arrivando molto prima di me. Avevo appena smesso di fumare, per la seconda volta, e il suo buongiorno spigoloso mi arrivava dritto nelle narici, un fumetto tabacco e caffè, solleticando quella vocina dentro che mi ricordava di avere tutto il diritto di riprendere il vizio, visto lo stress che sentivo addosso già a quell’ora. Poi alzavo lo sguardo verso la geometrica perfezione del cortile, facevo un bel respiro e infilavo la vetrata di accesso allo scalone.
Il teatro era un palazzo seicentesco illustrissimo, studiato sui libri, visitato all’esterno, mai penetrato. Ho scoperto che una forma di sottomissione alle regole, confusa con il rispetto per le istituzioni, mi ha tenuta per anni lontana dalla realtà. Quante serate estive in giro per il centro, finivano a sedersi sui freschi sedili del basamento del dado, ad ascoltare la musica delle due fontane, a godersi il brusio e la penombra della piazza. Insormontabile, mi sembrava, il palazzo. Impenetrabile, nel suo aspetto rigoroso e nella sua funzione di frontiera.
La prima volta che ho suonato il citofono e che la telecamera ha indugiato a lungo sulla mia fisionomia, ero emozionata. Tremavo, quasi. Una voce lontanissima, con accento marcato, mi chiese i titoli per l’accesso. Bastò una sola parola, mi sembrò di tornare bambina, una parola magica azionò l’apertura automatizzata della porzione di portone ed entrai. La volta a botte illuminata con i cassettoni marmorei a bassorilievi floreali fu la prima cosa, le due file di colonne che la sorreggevano, la seconda; la fuga su cortile che finiva negli alberi del giardino, la terza.
Ogni mattina, entravo con lo stesso candore di cappuccetto rosso, lasciandomi prendere da un nuovo dettaglio da studiare, da imparare. Era bello avere, seppur a scadenza, una consuetudine con quel monumento, una sorta di addomesticamento. Mi sembrava di andare a trovare la nonna, regolarmente e disciplinatamente, ascoltarne le storie, coglierne un luccicare dei suoi occhi, percepire la voce rotta o vederne le mani tremanti. E che importava se sotto le sembianze, si nascondeva un animale astuto e feroce.
Ero seguita passo passo da un occhio silenzioso e da orecchie sparse ovunque. Lo sentivo, ma soprattutto lo sapevo.

La seconda volta che scambiai due parole con Igor, si trovava nella saletta proiezioni. Stava svitando i sedili senza l’avvitatore elettrico. La sua squadra aveva a disposizione due cacciaviti e una chiave inglese. Lui e un altro lavoravano. Gli altri tre dormivano sul palco. Il mio sguardo stupefatto lo fece ridere; le sagome di schiena dei suoi compagni raggomitolati sui cartoni si sovrapponevano al centinaio di sedili da smontare, uno ad uno, otto perni per ciascuno.
Mi veniva da piangere e non sapevo se fosse per l’ordine impartitomi di verificare che il lavoro venisse svolto nei tempi stabiliti oppure per le condizioni in cui si lavorava. Non sapevo se la pena che provavo nel vedere scene come questa, fosse lecita. Mi chiedevo realmente da che parte stessi e su quale fronte dovessi operare. Ero incazzata, ma non lo sapevo. Una volta ancora ero lenta.

Ero io la terra di nessuno. Appartenevo ad un clichè mio malgrado. 

Aleksandr Deineka La difesa di Pietrogrado 1928